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Tor des Geant
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Autore Messaggio
Climberland



Registrato: 12/02/07 12:50
Messaggi: 475
Residenza: sull'alpe appena si puo'

MessaggioInviato: Lun Set 17, 2012 1:43 pm    Oggetto: Rispondi citando

silviobertone ha scritto:
Ragazzi!!! Grazie a tutti per i pensieri positivi durante questo viaggio ... e' un' esperienza favolosa .... una specie di sogno continuo dove si azzerano le barriere dei sentimenti e viene fuori il ritmo primordiale di noi esseri umani, accomunati agli animali nel movimento, ma privilegiati di poterlo gestire, capire e assaporare (o meno ...).

La chicca dei ristori e' stato quello volante al colle della Vecchia: polenta calda sul fuoco, carne al sangue scaldata a pietra e un boccalone di birra cru alla spina che risusciterebbe un morto: credo sia stata la molla che mi lanciato nella seconda meta' del percorso .... ciaooooooooooo


Un abbraccio Silvio... peccato non poterti fare i complimenti di persona questa volta!
A presto.
Lorenzo
Very Happy
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Domonice
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Registrato: 08/02/07 23:39
Messaggi: 10745
Residenza: Franciacorta

MessaggioInviato: Lun Set 17, 2012 9:49 pm    Oggetto: Rispondi citando

silviobertone ha scritto:
polenta calda sul fuoco, carne al sangue scaldata a pietra e un boccalone di birra cru alla spina che risusciterebbe un morto: credo sia stata la molla che mi lanciato nella seconda meta' del percorso .... ciaooooooooooo
abè, adesso che lo so mi oiscrivo anch'io Very Happy . Curiosità Silvio, Cosa avevi mangiato (e bevuto) anche come quantità fino a quel punto? E anche: da che pianeta arrivi? Very Happy Very Happy Very Happy
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silviobertone



Registrato: 28/01/08 16:46
Messaggi: 60

MessaggioInviato: Mar Set 18, 2012 7:19 am    Oggetto: Rispondi citando

Ciao Dome, ciao Lorenzo!!!!
avevo mangiato quello che offrivano ai ristori / basi vita: pasta, brodo con pastina (piu' pastina che brodo), mocetta, fontina, biscotti TUC, uvetta, albicocche secche .. acqua gasata, coca cola e niente gel o robe energetiche (che avevo nello zaino, ma tengo in caso di crisi improvvisa di fame fra un ristoro e l'altro).
Efficacissmi i cubetti di grana che danno energia e tolgono subito la sensazione di fame: penso di aver battuto il mio record di consumo ... in compenso a fine gara avevo la lingua tutta impastata e fatica a sentire i gusti .... ah, si, alle basi vita prima di dormire immancabile lattina di birra per conciliare il sonno ....

origine: pianeta terra, ma molto terra a terra! Very Happy Very Happy Very Happy
un abbraccione!
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LorenzOrobico



Registrato: 08/02/07 23:23
Messaggi: 9209
Residenza: Trescùr (BG)

MessaggioInviato: Mar Ott 23, 2012 10:17 am    Oggetto: Rispondi citando

Riporto qui l'avvincente resoconto della gara di Silvio, pubblicato di recente sulla rivista Ultra Magazine.

Buona lettura !!




Tor des Geants – una lezione preziosa

Quest’anno sono fra i fortunati concorrenti iscritti al Tor, ad inseguire una linea di percorso che esercita su di me un fascino esagerato: il giro di una Regione, che collega tutte le valli in una cavalcata senza sosta. Il ricordo più lontano che ne ho è quello della gita scolastica di prima liceo, quando eravamo saliti da Rhemes nel vallone dell’Entrelor ed ero rimasto folgorato da quei lariceti, dalla neve primaverile e dalle marmotte che svernavano. Mai avrei pensato che trent’anni dopo i miei stessi piedi avrebbero solcato quel piccolo sentiero, tantomeno in un contesto del genere.

Poi, molti anni dopo, valle per valle e con ancora infiniti spunti di curiosità, avevo continuato ad ammirare come fossero belle, soprattutto in primavera avanzata, e con sci e pelli di foca inventavamo giri che magari racchiudevano due gite in un giorno e così pian piano sono sedimentati anni, amici, ricordi e la montagna è rimasta li, eternamente giovane a guardarci amarla. La vita è una sola e le giornate non tornano indietro: alcune siamo imbragati in un sistema che ci divora sentimenti e ci appiattisce come automobilisti rassegnati in colonna, altre le possiamo prendere e modellare sfacciatamente rendendole doppie, triple, senza paura di esagerare, e sono queste ultime che ci fanno forti, ci anestetizzano dalle senzazioni negative o dalla sopravvalutazione dei problemi quotidiani. Spesso sono felice quando mi esce una giornata “doppia”: è un biglietto che mi prendo per allungarmi la vita. Un giorno non potrò più farlo, ma adesso ne approfitto come un bimbo a piene mani nel vasetto della marmellata. Nei due anni scorsi avevo seguito diversi amici sul Tor, emozionandomi davanti al loro progredire (a video!) ed immaginando lontanamente i percorsi, i loro pensieri, i movimenti e le sensazioni; sentendo i loro consigli ed esperienze, sin dal momento dell’iscrizione mi ero imposto una regola ferrea, che ho subito trasgredito: “parti piano”.

La notte prima della partenza, pur essendo sereno e tranquillo, ho faticato molto a prendere sonno e mi è dispiaciuto un pò, sapendo che le successive sarebbero state molto corte. Eccoci in gruppetti festosi avviarci verso lo striscione in piazza: c’è aria di festa, ma la musica, gli spettatori e l’attesa mi danno la sensazione di uno sciame di vespe, mi sento stordito e infastidito, non controllo bene la situazione. Siamo partiti, mi rendo conto di aver mentito a me stesso, sto bene, non mi sembra di forzare, ma vedo facce che non dovrebbero essere lì, anzi è proprio la mia che non dovrebbe essere lì. Non vedo l’ora di essere solo, ma la compagnia è buona, due paroline con Marco Zanchi, due battute con l’uno o l’altro e non mi rendo conto che mi sto imballando nella calura della giornata. Non mi sono fatto tabelle di marcia o schemi, solitamente studio accuratamente le altimetrie e le distanze, ma in questo caso, il percorso è troppo lungo perchè riesca a memorizzarlo dalla carta. So solo che sono partito forte, ma l’orgoglio e quel senso di invincibilità mi offusca, sto bene, cosa vuoi che sia, teniamo questo passo. Mi ero a lungo concentrato sulle parole di Profit – bisogna essere umili – e ora sono uno sbruffone con me stesso. Quelle parole suonano lontane, sto bene, sono un Pinocchio, indistruttibile e incosciente.

Ad un ristoro vedo Marco Gazzola, vincitore morale della scorsa edizione, sta male, mi dispiace molto per lui: è un Campione vero, una bella persona, spero che riparta e mi risuperi più avanti. Adesso inizia a piacermi la gara, sono solo, non c’è più quel roboante caos che mi stordiva alla partenza, scendo bene verso Valgrisenche (troppo bene!), il tifo a valle mi riscalda, vedo Massimo, Gloriana, Loris che agita un campanaccio; cala la notte e mi sento a casa. Al ristoro mangio pasta, brodo con pastina, frutta secca, TUC, e le solite cose e poco dopo mi riavvio gagliardo come prima, rinforzato dal cibo e dall’accoglienza dei volontari e amici che sono lì.

Bisogna essere umili, non lo sono stato, cinquanta metri e la cena è sul selciato, lo stomaco si contorce come una vipera su un bastone, i conati sono ritmici, ho appena il tempo di pensare “stupido” fra un conato e il seguente. Mi rendo conto con fredda lucidità di essere un asino: non posso dire che non lo sapevo, me lo ero ripetuto mille volte. A volte non ascoltiamo gli altri, e altre non ascoltiamo noi stessi, ci comportiamo male. La salita verso il col dell’Entrelor è una via crucis, la notte che volevo godermi è un infinito purgatorio, vado talmente piano che ho tutto il tempo di riflettere sulla mia boria e di rendermi conto dello sbaglio. Non mi compatisco affatto: mi sta bene, lo sapevo; però ora sto compromettendo il giro. Egoista: questa gara ha coinvolto la mia famiglia, ci ha fatto riprogrammare le ferie, ha coinvolto tutti gli amici che seguono a video e avranno infine capito di conoscere un piccolo presuntuoso. Mai più. Questa è l’ultima gara lunga che farò, devo provare a finirla perchè è l’ultima: se avessi carta e penna lo scriverei davanti a un notaio per essere sicuro di non cambiare idea. Correrò ancora, si, ma forse nemmeno una maratona, solo roba corta, al massimo qualche mezza. Ho chiuso con le Ultra, è stato bello, mi hanno regalato moltissimo, ma qui sono fuori giri, questo è troppo: sono alla prima di quattro notti e sono uno straccio. La frontale si inerpica lenta fuori dal bosco, ci sono piantine di mirtilli e al prossimo rifugio ritroverò il mio amico Laurent, settimo l’anno scorso, bianco come un morto, svuotato dalla diarrea. Abbiamo 44 e 45 anni, ora siamo due vecchi; riusciamo a scherzare senza compatirci sulle nostre ambizioni e le aspettative che ci hanno portato qui.

Ripartiamo mesti e vinti, Laurent conosce bene il percorso, per me invece è terreno nuovo; non fa freddo (1 C) ma sento freddo dentro, il freddo della vergogna di un’impostazione così sciocca. Iniziamo prudentemente la discesa verso il posto tappa successivo (Eaux Rousses) dove spero di ritrovare ristoro e soprattutto una branda per stare al caldo. La gentilezza dei volontari è al limite dell’imbarazzante; vorrei scusarmi per il mio stato, mi riservano una branda con una coperta e come chiudo gli occhi, Morfeo mi rapisce immediatamente, nonostante ci sia luce e sia in piena zona di passaggio. Dormo un pò più di un’ora e verso le sette decido di attaccare il col Loson, punto più alto del percorso, è ora di chiamare casa: staranno preparandosi per andare a scuola, per cui non disturbo, non devo dire che non sono stato bene, non devo farmi compatire, questo è un gioco, non un’avanzata al fronte! Le vocine del primo mattino mi risvegliano: Yannick mi beffeggia “papà arriverai ultimo!” – è vero, però se pensa così vuol dire che arriverò. Nella vita normale essere ultimi non è considerato bello, qui invece è un punto d’onore, il primo e l’ultimo sono il più veloce e il più lento, non il migliore e il peggiore. Penso al perchè abbiamo tanto bisogno di gerarchie, di dimostrazioni di forza e di potere, siamo fatti così. Viviane con la sua vocina mi dice “però, sei forte! Non puoi fermarti, torna presto che ti abbiamo preparato una bella festa” e ripenso alle tante gite fatte con lei, a come quelle esili gambettine divorino dislivelli e all’entusiasmo che la illumina quando siamo in montagna. Gaëlle, nella sua splendida e tenera adolescenza, mi sorprende: “sappiamo dove sei!”, si è alzata prestissimo per vedere a PC dove sono. Continuo a dirmi che sono un privilegiato, primo per essere parte di questa famiglia splendida, secondo per essere su questo sentiero che sale in delicata serpentina nel bosco.

Il ritmo di salita è lento, la giornata è splendida, siamo concorrenti che si ritrovano con lo stesso passo in un vallone infinito, un giapponese della Tecnica passa veloce in canotta, un paio di francesi avanza regolarmente, una signora inglese procede regolarissima, mi accodo e penso “caspita come sto andando piano”, la seguo e vedo le unghie tutte meticolosamente dipinte con la Union Jack. Penso a come ciascuno sia orgoglioso di essere qualcuno: bella questa idea di dire silenziosamente, sono britannica, ne vado fiera! Il lento passo ha l’effetto devastante di un sonnifero: non riesco più a tenerle il passo. Un prato di erbetta lucida di rugiada mi apre le braccia al primo tiepido sole. Tolgo lo zaino, mi appoggio e sogno. È tutto lontano, silenzioso. Sogno e di colpo ritorno ad aprire gli occhi: sembra passata una notte intera, un secolo: la signora inglese e i francesi sono ancora li, 50m di dislivello più in su. Mi alzo e riparto con un nuovo passo, non capisco: ora sto andando più veloce e faccio meno fatica di prima, ne approfitto e avanzo fino al colle. Poi ci aspetta una lunga discesa fino a Cogne, caracollo giù tranquillo e man mano che il tempo passa mi sento sempre meglio. Incrocio due signori, che conoscono bene mia sorella, una stretta di mano vigorosa, e mi trasmettono inconsapevolmente la saggezza antica dei valligiani. Il morale è a mille, corro da Valnontey, ricordando una gita di molti anni fa, inifinita ravanata della Punta Tsissetta, e poi la passeggiata con le bambine che avevano familiarizzato con una volpe, che bello correre! Arrivo a Cogne e ritrovo Laurent, triste del ritiro, ma cosciente della bontà della sua scelta: tre cadute rovinose per svenimento lo hanno spaventato, ha picchiato la testa e si è reso conto che andare oltre non sarebbe stato prudente. Una bella doccia, un buon ristoro e riparto corricchiando verso Lillaz. Supero un americano accompagnato dalla moglie, mi dice “vai piano, così ti stanchi, cammina, non correre”, gli rispondo ridendo che se non avessi voluto stancarmi così, sarei rimasto a casa ... siamo tutti stanchi.

Ho la stazione di Donnas nel mirino per la notte: salgo regolare e deciso fino al rifugio Sogno dove ritrovo Simonetta e Oliseo, alle prese con un banchetto degno del nome del rifugio: una farfalla enorme fatta con pomodorini, uova sode, mocetta e verdura. Ne approfitto senza vergogna e ripartiamo insieme alla volta della Valle di Champorcher, la salita è breve e la discesa sarà lunga, lunga, lunghissima. Stiamo in tre, ci si dà una mano a vicenda, il ritmo è un pò al di sotto di come potrei andare, ma vedo che siamo regolari e mangiamo terreno ad altri concorrenti. Non siamo neanche a metà gara, va benissimo così e la compagnia è buona, scherziamo e scendiamo sempre regolari. Passiamo in un tratto di sentiero che avevo fatto con la famiglia e con amici: che sorpresa, mi ritorna quel pomeriggio del luglio scorso e sento una gran sicurezza per il fatto di conoscere bene quel tratto, sembra ancora di sentire gli schiamazzi dei bambini e il sapore del formaggio comprato alla malga. A Bard si arriva nel vero fondovalle, è mezzanotte passata, mi viene da correre, corro. Simonetta e Oliseo arriveranno poco dopo, ma ho troppa voglia di correre, ora che sto bene. L’antica via romana con il piccolo arco mi spara indietro di 2000 anni: i suoi rugosi solchi sono stati scavati da carri bestiame, trasporto di coorti, caligae e poi si sono susseguiti milioni di passi, di gocce d’acqua, di vite che gridano la loro importanza passata. Che bello: ora ci corro io con rispetto, quei sassi antichi sembrano parlarmi, li ascolto.

Ora sto bene, la notte da tregenda è un ricordo lontano; formiamo un gruppettino di quattro; ragazzi che conosco bene, uno di Torino (Francesco) e due Valdostani (Enrico e Claudio che è al suo terzo Tor!). Mi aggrego, anche se ho un pò paura di forzare il ritmo. Non sarà così: saliremo bene e affiatati e arriveremo tutti insieme a Niel, poi con Francesco, saremo un pò in anticipo a Gressoney. Salendo vediamo una ragazza giapponese salire con fatica e stento, fa tenerezza, fatica in silenzio, la incoraggiamo e credo che per lei sia stato un buon momento: discreta e silenziosa si accoda al nostro trenino e tiene il ritmo. Ringalluzziti tutti dalla sua presenza diamo qualche strappo, ma lei silenziosa e umile, segue. È una presenza piacevole e ci da una serenità nuova. Conosco bene questa tratta: l’avevo provata in estate con Pietro, Fabrizio, Laurent, Yann, Yvon e Gregoire. Penso a Gregoire che in questo momento sta conducendo la gara: un grande, si è meticolosamente preparato e adesso sta facendo gara solitaria in testa, se lo merita. Non è solo una grande atleta: è proprio un bravo ragazzo, con la testa sulle spalle!
In prova questo settore lo avevamo passato in fuga dai temporali e avevamo preso una bella lavata prima di Niel, oggi siamo in ottima compagnia e fa bello. A sorpresa un gruppetto di amici di Torino, ci incita e ci segue fino al ristoro del Lago Vargno: che bel caloroso regalo inaspettato! Un paio d’ore dopo il ristoro al colle della Vecchia sarà la ciligiena sulla torta: polenta calda, carne grigliata e uno strepitoso boccale di birra alla spina che sembra nettare dell’Olimpo. Arriverò a Gressoney con Francesco, e quando ci raggiungeranno gli altri rivedremo un pò la strategia. Insieme alle gocce di pioggia, arriva l’informazione che la gara è stata fermata per una frana dopo Valtournenche: elemento fastidioso per tutti, dal momento che ormai la voglia di finire è tanta, e la fantomatica frana di cui sentiamo parlare ci sembra un ostacolo insormontabile.

Il nostro gruppetto si ricompone ed andiamo spediti verso Valtournanche, taluni avanti, taluni indietro. Nella salita successiva mi sento un leone e dopo essere giunto ad un ristoro, mi congedo dai compagni di viaggio, Enrico, Claudio e Hiroko: il tempo si fa scuro e ventoso e sono vestito poco, devo passare veloce da un ristoro all’altro per evitare di prendere freddo. Mi alimento ormai a cubetti di grana e avanzo regolare nel ventaccio. La salita alla zona alta prima di Ollomont è diventata un’uscita invernale notturna. Nevica a raffiche e i fiocchi che turbinano pungono gli occhi. Testa bassa fino al prossimo ristoro. Seguo da lontano un omone alsaziano con una gran barba bianca e penso alle sue zone dove avevamo fatto un capodanno, faceva freddo, ma siamo tutti nel nostro elemento. Ad un tratto ripenso alle ferie di luglio: la spiaggia ligure con la sabbia che bruciava i piedi, Mustafà carico di ombrelloni che avanzava canticchiando “Zappalì Zappalà” e che i bambini aspettavano ciclicamente per la sua cantilena. “Zappalì Zappalà - ma che freddo che fa”. Mi piace.

Tutto finisce, per cui prima o poi farà meno freddo e ci sarà meno vento. I disegni della neve che si accumula al suolo sembrano ora esseri orrendi e beffardi, elfi malefici che mi deridono con smorfie mostruose, entità deformi che si muovono e tendono le braccia con ghigni sordidi; so che non esistono, lucidamente li ricaccio al suolo pensando “loro sono al suolo, io li calpesto, ecco perche’ si lamentano e mi vogliono spaventare per non farmi proseguire”, inseguo l’ombra lontana ed effimera del mio amico alsaziano, con il quale ci ritroveremo nel bivacco seguente davanti ad un buon brodo caldo dove annegare cubetti di pane e fontina. Non durerà molto il tepore, e dobbiamo scaldarci prima di uscire nuovamente; nel bivacco entrano due ragazzi: ma uno lo conosco! È Lele, mio cognato: come fa a sapere che sono qui? All’inizio credo in uno scherzo della stanchezza o una fantasia, subito dopo usciamo nuovamente verso il colle e una discesa che ha qualcosa in comune con una bella sciata, la pendenza c’è, la neve pure ... mancano solo gli sci, slittiamo lateralmente con le scarpe. Che gentilezza essere venuti fino qui per me. L’eterno vallone che seguirà (con pochi riferimenti) ci farà atterrare ad Oyace, al caldo. Lo sapevo che il freddo finiva. Una birretta e 45 minuti di dormita sono quello che serve per ripartire.

Rinasco alle tre e mezza del mattino, con un passo ormai sempre uguale: provo un piacere immenso in questa mattinata calma a salire e sentire il morbido degli aghi di conifera sotto i piedi. Salgo e sto bene, salgo e sto bene, il respiro è regolare, lo controllo. Al successivo bivacco esce una Guida Alpina e mi dice “non continui, gara sospesa per neve al col Malatrà, con il levar del giorno decideranno cosa fare”. Peccato, stavo talmente bene che sarei salito sulla luna con quel ritmo. Nel bivacco elitrasportato in plexiglas che ci ospita siamo in otto, tutti assonnati ma incapaci di dormire: troppo scomodo dormire seduti. Le palpebre crollano, aspettiamo sdrammatizzando con battute e frutta secca, di ripartire alle 9.30. Aprire la porta del bivacco è come fracassare una diga: si riparte, ogni goccia con il suo peso e la sua velocità . Penso che più avanti stia succedendo la stessa cosa, ma mi spiace che probabilmente non riprenderò nessuno.
Riprendo il ritmo di prima fino al colle, lo chiamerò “ritmo primordiale” è il passo sul quale mi attesto automaticamente, non veloce, non lento, ma sentito, regolare, continuo, eterno.
In discesa corro bilanciandomi con i bastoncini, come fossero degli stabilizzatori; vedo un puntino lontano: sagoma inconfondibile di mia sorella, che regalo ! Ieri suo marito, oggi lei e lasciano a casa quelle figlie bellissime per me? Sto bene e parliamo del più e del meno: ha visto ripartire il gruppo da Ollomont e non sono poi così lontani .. inizio a crederci: almeno uno devo riprenderlo, per l’onore! Alla base di Ollomont non tocco nemmeno la sacca: faccio il pieno di grana e acqua e su al col Champillon col mio ritmo primordiale! Sto bene e ripenso alle ferie fatte qui qualche anno fa, con le corsette su questi sentieri quando Alessandra era a 15 giorni dal termine di Yannick, non sapevamo che sarebbe arrivato il maschietto, questo bel ricordo mi fa bene. È come se ogni pezzo di Valle fosse un pezzo di vita, noi si nasce, cresce ed invecchia, la Valle resta intatta nel suo infinito candore! Che bello! Sto bene e salutata la sorellina al rifugio, inseguo l’ultimo che avevo intravisto, sapendo che, povero, ha dei guai con le caviglie: ieri sera parlavo a Oyace con suo papà. È un duro, e deve avere un gran male. Lo raggiungo nella discesa alla quale seguono 12km di piano, mi metto a correre regolare con una sola pausa per ammirare una splendida volpe che mi taglia la strada, poi giù giù forza che manca solo un colle e 40km. Sapevo di avere qualcuno davanti, e me ne ritrovo due al ristoro e uno poco dopo: devo correre, sto bene; li saluto e corro, voglio stare solo.

Corro quando riesco, faccio il mio ritmo sul ripido. Al rifugio successivo mi rifocillo nuovamente e incrocio i miei inseguitori nel momento di uscire. Un cenno con la mano e a testa bassa nelle raffiche di vento gelido verso l’ultimo colle. C’è neve dura, ghiaia riportata dal vento incastonata nel ghiaccio, penso a passare il colle prima dell’imbrunire, ci riesco e dalla fessura del colle si apre un paesaggio lunare: agli ultimi raggi del sole un vallone innevato, rosso fuoco con sullo sfondo la Punta Walker delle Grandes Jorasses e il Monte Bianco, spazzati da sbuffi poderosi di vento. Che freddo, devo scendere ... giù di corsa inseguendo altri due puntini che fuggono a valle. Adesso mi ritrovo in un luogo familiare, la discesa verso la val Ferret è come un revival delle mie sette passate edizioni dell’UTMB. Sto per ripercorrere in senso opposto uno dei più bei tratti corribili del giro: dal Rifugio Bonatti al Bertone. Sarà per l’omonimia o per il fatto che il posto è splendido, al Bertone mi sento a casa. Un caffè doppio al Bonatti stipato di turisti e camminatori davanti a pietanze da sogno; il rifugio è pieno e l’accoglienza calorosa, soprattutto dopo tutto quel vento. Ma mi sento più a mio agio di nuovo fuori. Ormai la notte cala e la morbida terra battuta del sentiero è ospitale; quando riesco procedo a luce spenta: mi sento così più parte dell’ambiente, come se la luce turbasse questa simbiosi.

Corro, corro in salita, non c’è più fatica, solo un’infinita voglia di arrivare, di andare a dormire. Supero alcuni concorrenti, accelero, alterno brevi passi di marcia negli strappetti e corro ancora. Vorrei da una parte fosse tutto finito, dall’altra questo è il sentiero perfetto, che bello se non finisse mai. Mi sembra di volare, di non toccare il suolo, il respiro non è affannoso. Galleggio al mio ritmo modulato sulle variazioni di pendenza del sentiero. È tutto naturale. Come il rintocco di un gong, mi sveglia la vista del cartello al colle sopra il Bertone: so perfettamente dove sono e questo sentiero ha una fine; mi aspetta l’ultima discesa. Devo andare veloce, finire, chiudere.
Passato il colle, mi fiondo nella discesa, passo il controllo del Rifugio dove vedo Simone con la moglie; ormai sono a balla: scendere, scendere. Affronto i tornanti della discesa come le curve di una serpentina, più sono veloce, prima finisce il Tor. È l’unico motivo che mi spinge. L’entrata in Courmayeur è strana: un pò ricalca la salita del’UTMB, un pò fa varianti nel parco comunale, non mi ritrovo nell’immaginario che mi ero creato.

All’improvviso mi assale un senso di enorme vuoto, sono vicino al traguardo, c’è festa ma non ne sento il richiamo così forte; è come se la linea del traguardo non fosse importante: sono più di quattro giorni che la inseguo ed ora che è li a pochi metri, perde il suo fascino. Sono felice di aver finito, e me lo devo imporre: penso a come mi sarei sentito se non avessi chiuso, ma d’altra parte l’aver raggiunto qualcosa di così effimero, mi allontana dall’entusiasmo che credevo esplodesse alla fine. Ho fame, ho sonno, forse è questo che sfuma l’esplosione che avrei voluto manifestare, ma questa non c’è. Ripenso alla promessa fatta a me stesso di non rifare mai un’Ultra, tantomeno questo Tor. Mi viene nostalgia per le ore passate fra i monti, vorrei fosse tutto da iniziare da capo, per avere una seconda chance. Ora raggiungerò il sacco a pelo in auto ed inizierò a sognare questo viaggio, volando come prima. Il ritorno a casa ha qualcosa di magico: è tutto uguale e così diverso, gli odori per strada, il portone che si apre come tutti i giorni è cambiato, la mia famiglia festante mi sembra tutta nuova, la casa è cambiata. Mi sorprendo di ogni dettaglio: nulla è come prima, ma non ci sono differenze tangibili o descrivibili.

Il Tor mi ha insegnato un nuovo modo di vedere, mi ha resettato i sensi, mi ha riportato ad essere primitivo. Non sono diventato più forte o migliore di prima, ma ho dentro una irresistibile voglia di ricominciare ... sono un privilegiato e sono così felice di esserne consapevole!


Silvio Bertone


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